I disappunti sono come i fichidindia se non li tocchi non ti pungono. La Signorina
X li lasciava sulle sedie e sui tavoli di casa e li disseminava ovunque
andasse, dimenticandoli a volte sugli autobus. Aveva un ficodindia su ogni
sedia e tre sul tavolo della cucina. Quando si sedeva a tavola le piaceva
guardarli e ricordarsi di tutti i disappunti della sua vita: quello giallo,
quello rosso, quello viola. Come i ficodindia, i disappunti celavano colori
sfavillanti dentro la buccia spinosa. Una volta al mese la Signorina X ne
sbucciava uno e lo mangiava con riluttanza, malvolentieri – perché nonostante i
bellissimi colori e il buon sapore la signorina X non sopportava i semini che
doveva mandare giù ad ogni boccone. Non ci voleva molto prima che il vecchio
ficodindia fosse rimpiazzato da uno nuovo. E così, la Signorina X andava avanti da un
giorno all’altro, da un mese all’altro, da un anno all’altro. E così sia.
Lo scopo della Signorina X era quello di
raggiungere una conclusione finale che spiegasse tutto: passato, presente e
futuro. Un filo logico dall’inizio alla fine. Insomma il perché e il percome.
Un’equazione matematica perfetta. Non è facile vivere tre vite nello stesso
momento, coordinare le cause passate con la vita presente e le azioni future. La
Signorina X cercava di dedicare la stessa percentuale di tempo ad ognuno di
questi settori. A volte, mentre era sul punto di fare qualcosa di pratico, come
pagare un conto e prendersi cura dei suoi affari finanziari, ecco che si proiettava
nella sua mente la pellicola di una giornata già vissuta. Succedeva così, all’improvviso, senza nessun preavviso e
nessuna intenzione da parte sua. Le pellicole avevano tutte una data ed una
stagione ed erano catalogate non in ordine cronologico ma secondo odori,
colori, sapori ed emozioni. Poi c’era una voce speciale che la Signorina X
chiamava ‘reazioni improvvise’. Ad esempio poteva succedere che un evento
qualsiasi facesse scattare il meccanismo, ed ecco che la pellicola
corrispondente veniva subito selezionata. Quello era il colpo più difficile da
sopportare perché non poteva essere previsto, e la pellicola proiettata, a
volte, aveva effetti indesiderati e scioccanti.
Da quando la Signorina X aveva deciso di
riordinare la sua vita e di cambiarla, nulla sembrava essere al posto giusto.
La stanza, i mobili, i quadri, tutto era sbagliato, e poi i vestiti i tappeti
le tende. Inoltre stava leggendo un libro di filosofia − sempre di Bertrand Russell − e quello complicava ancora di più le
cose. La Signorina X non sapeva se cominciare prima dai ricordi, metterli tutti
in fila ed esaminarli uno per uno: le cause, gli effetti, gli amici, le sensazioni,
il presente ed il passato, o cominciare dall’istante presente, andando indietro
e abbracciando tutta la sua vita. O forse era meglio lasciare che i ricordi si
rivelassero alla mente, come di solito fanno, nei momenti più inopportuni? Era
ancora possibile riafferrare tutti quegli istanti che l’avevano portata sin lì?
Questi buoni propositi erano talmente
difficili da mettere in pratica che la notte prima si era svegliata coperta di
sudore freddo, una cosa, questa, che non le succedeva da anni − dalla fine della sua storia d’amore.
La Signorina X si alzò, si toccò leggermente i capelli con le dita e
accese il bollitore. Il grigiore della mattina e la noia di un’altra giornata
di lavoro la rendevano pigra e lenta. Accese la stufa a gas e si riscaldò lì vicino. Teneva la tazza calda tra le mani
e sorseggiava lentamente il tè mentre guardava il bagliore della fiamma. Si
vestì in fretta, mentre la gatta si strofinava
tra le sue gambe. Poi prese la sua roba e uscì di casa. Percorse la strada, in leggero
pendio, sino alla fermata dell’autobus dove una lunga fila l’attendeva. Mentre
il vento le scompigliava i capelli, la Signorina X guardava tutti quelli che fermi
lì aspettavano, come lei, lo stesso autobus
rosso con il numero 17. C’era la donna con i capelli color fucsia e l’impermeabile
argentato, il trucco pesante e gli occhiali scuri. Un uomo alto e grosso, un po’
pelato, non si ricordava dove l’aveva già visto, probabilmente in uno spot
pubblicitario. Erano tanti gli attori e i personaggi televisivi che abitavano
da quelle parti.
Il giorno dopo
La signorina X stava pagando la spesa al
supermercato quando, all’improvviso, arrivò un pensiero inopportuno:
La
mia gatta nera aveva uno sguardo demoniaco e incuteva rispetto sempre. Con lei
non si scherzava, anche se le avevi appena dato da mangiare caviale e aragoste,
se non stavi attenta ti piantava, senza troppi preamboli, le cinque zampe
uncinate sulla mano, che taglienti come un rasoio ti avrebbero fatto
sanguinare. Era una gatta nera e la sua pelliccia si colorava di rosso tiziano
al sole, proprio come i capelli di mio padre con cui aveva un rapporto molto
stretto. Si piacevano ma gareggiavano per la supremazia. Felini entrambi, con
gli occhi verdi, si rispettavano e si temevano, ma nessuno dei due cedeva mai e
la lotta somigliava ad una danza cauta, fatta di balzi improvvisi. Io rimanevo
a guardarli e ricevevo solo briciole d’affetto dalla mia gatta che se la
intendeva soltanto con il capo supremo. La mia gatta nera aveva uno sguardo
demoniaco, incuteva rispetto, ma non potevi non volerle bene.
La Signorina X ritirò il bancomat dalla
macchinetta e si avviò verso casa.
Intanto al primo piano, l’orologio suonò
le tre. Era uno di quei pomeriggi stanchi con l’aria tersa e le nuvole basse e
grigie. La finestra con le sue fessure lasciava entrare un freddo frizzante da
fuori, tutto il resto era immobile. La signorina X si guardò le mani, non
voleva pensare, non mancava molto al calare della sera e poi un altro giorno
sarebbe spuntato identico a questo. L’unica soluzione era la completa immobilità,
sino a che il susseguirsi del giorno e della notte si sarebbero confusi con
un’unica lunga ora senza fine. Quanti giorni poteva trascorrere seduta sul sofà
senza parlare, pensare o muoversi? Quanti giorni sarebbero passati prima che il
telefono avrebbe squillato o qualcosa avrebbe spezzasse quell’incantesimo? La
signorina X si chiedeva come fosse cominciato − una volta le piaceva tutto, poi si era
ammalata di paura. Il tunnel era diventato un serpente gigante che la
inghiottiva e gli autobus buchi neri dentro cui spariva alla volta della città
tentacolo − e come si possa finire su un divano, come
un orologio senza batterie o uno di quei vecchi giocattoli che si fermano
quando la corda si esaurisce. Perché era proprio così che si sentiva, scarica ed inesistente,
come un trenino senza carica. Sarebbe mai arrivato nessuno a salvarla? Ma
salvezza e dannazione erano due cose molto lontane dalla sua mente perché
entrambe richiedevano un atto di fede e di questo lei non era capace.
La Signorina X era riuscita persino ad
isolarsi completamente dai suoi pensieri, una cosa a cui aspirava da molto
tempo. Pensieri, i suoi, tormentosi e stancanti, quasi come dei piccoli diavoli
incalzanti, armati di trapani e stuzzicadenti. Non dei veri dolori lancinanti
ma dei doloretti fastidiosi e incessanti, come dei morsi d’insetti. Era
riuscita ad entrare in questa nuova dimensione in cui non c’erano più né pensieri né sogni, in cui non era né sveglia né dormente. Era uno stato a metà tra il
pensare ed il cadere in preda a sogni, ma non apparteneva né all’uno, né all’altro. Non proprio il nirvana, ma più
che altro un’anestesia mal riuscita. In questo stato riusciva a funzionare e
vivere perfettamente, e riusciva a compiere quei mille compiti inutili di ogni
giorno che spesso formano una giornata. Poteva camminare, parlare, muoversi,
fare domande a cui non avrebbe poi dato ascolto, mangiare e a volte anche
cucinare.
La signorina X non si ricordava da quante
ore fosse seduta sul suo divano a guardare uno spazio immaginario oltre il
muro, accessibile solo alle creature dotate di raggi X. Spesso aveva sognato
d’essere rapita da extraterrestri, per lei non sarebbe stata un’esperienza
terrorizzante come molti l’avevano descritta, ma un sollievo. Si era immaginata
la scena nella sua mente cento volte. Li avrebbe visti arrivare dalla finestra.
La navicella si sarebbe fermata a mezz’aria, una luce intensa avrebbe penetrato
la stanza, perforandola, sino al sofà, e come un tappeto si sarebbe allungata
ai suoi piedi. Allora lei si sarebbe alzata, senza aspettare un ordine, e
camminando sulla striscia di luce si sarebbe diretta verso la finestra e fin
dentro la porta luminosa, invitante e aperta della navicella. Qui si sarebbe
finalmente svegliata ed avrebbe cominciato il suo viaggio.
∞∞∞
Una volta entrata nella navicella la luce
abbagliante si spense e la signorina X si trovò in una stanza identica alla sua,
seduta sullo stesso divano mentre veniva proiettata nello spazio come un
giavellotto.
Lo spazio è fatto di stelle e di
fiammelle, pensò la Signorina X, fiammelle e stelle, e cominciò a recitare i versi di Giovan Battista Marino
che aveva imparato a scuola tanto tempo fa: “…del padellon del ciel la gran
frittata.”
Questa è la triste storia della Signorina
X che sperava di trovare nel buio soprastante la luce sfavillante che splende quaggiù.
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