Sono tornata nella villa in stile Liberty Siciliano,
ma il gatto nero non mi aspetta più fuori dalla porta sdraiato sul gradino di
pietra o sotto l’edera fiorita. La facciata rosa antico che si sgretolava per
via delle macchie di funghi neri che la divoravano; la corona di gerani a
semicerchio intorno la casa che serviva a tenere lontani gli insetti, e gli
altri animali che popolavano la fitta vegetazione del giardino selvatico di
casa nostra non ci sono più.
La signora della villa accanto, nonché zia
dei miei cugini, ci portava per merenda il suo dolce preferito: zuppa inglese
con pinoli raccolti nella sua pineta. Che prelibatezza! Le due zie facevano a
gara a chi faceva i dolci più buoni.
Le due sorelle erano in lite da anni per
motivi a noi sconosciuti. Nei pomeriggi di chiacchiere degli adulti, avevamo
sentito la parola ‘beni’, si trattava quindi di
soldi e non di sfide culinarie, come pensavamo noi. Le due sorelle non
venivano mai assieme a trovarci, annunciavano telefonicamente il loro arrivo e
quando c’era l’una non c’era l’altra, ed è per questo motivo che non era mai
successo di mangiare nello stesso giorno zuppa inglese e torta viennese al
cioccolato, ma o l’una o l’altra, come le due zie. Io prediligevo la torta al
cioccolato e il mio voto di favore andava a ‘Zia Caterina’ ma non disdegnavo
per niente la zuppa inglese, dal sapore delicatissimo, di ‘Zia Concettina” con strati
di morbido pan di spagna nel fondo (della zuppiera senza fondo) crema
pasticcera e pinoli freschissimi. Così il loro litigi si trasformarono in una
gara culinaria tutta a nostro favore.
Mi ricordo così le serate estive: seduti
fuori sul terrazzo sopraelevato del giardino, con i cespugli di rose selvatiche
che non volevano prendere nessuna forma, a dispetto delle mille potature. Anche
dopo anni di soggiorno in quella casa nulla voleva tornare come prima. Gli anni
di abbandono avevano lasciato un segno indelebile che sarebbe rimasto per
sempre, nonostante la nostra presenza lì. Ai lati della villa c’erano le zone più
impraticabili, dove era impossibile andare − territorio, questo, accessibile
solo ai gatti randagi e quasi selvatici, che popolavano il vicinato, con cui la
nostra gatta nera era in continuo conflitto. Sopra il solaio, nell’attico vuoto,
i ratti spopolavano incontrastati, inseguiti ogni notte da orde di gatti
inferociti che alla fine li decimarono completamente. Le uniche a vivere quasi
indisturbate erano le lucertole che pigre si rilassavano al sole, ferme per
delle ore, cambiando colore, variando dal verde chiaro al verde scuro − quasi
marrone.
L’altalena si trovava nell’angolo opposto,
sotto l’abete centenario, in un angolo buio e ombroso dove, io e i miei cugini, giocavamo a calcio. Io ero
l’attaccante e finivo sempre col pestare inavvertitamente uno dei più piccoli
che cominciava a piangere e la partita finiva sempre così.
Di fronte, il campanile della chiesa
suonava le ore, mentre la cupola piramidale lucida e colorata brillava con le
sue mattonelle di ceramica che luccicavano al sole. Era una chiesa dall’aspetto
austero con il convento dei francescani annesso − ma di frati ce n’erano
ben pochi − e il sagrestano più stonato del mondo che cantava e suonava l’organo. La
chiesa all’interno era buia e tetra ma bella e solenne con delle opere artistiche
importanti appese alle pareti ma troppo annerite per potere distinguere le
figure dei santi e le scene rappresentate. L’odore di incenso aveva un che di
magico e ti stordiva mettendoti sonno. Forse erano le prediche troppo lunghe e
poco accattivanti a sviluppare l’immaginazione, costringendoti a pensare a qualcos’altro
pur di resistere sino alla fine senza sbadigliare troppo − era un esercizio niente
male, molto meglio dei computer games di oggi che lasciano ben poco
all’immaginazione di un bambino. (I videogiochi dovrebbero essere riservati solo
agli adulti, i quali hanno un’immaginazione più stanca)
Un altro modo per trascorrere il tempo durante
la messa era osservare i fedeli seduti sulle panche. Ovviamente ci si doveva
accontentare di chi ti capitava davanti o al massimo nei sedili accanto.
Cominciavi dai capelli poi passavi alla forma delle spalle, al collo, alle
collane o spille e al vestito, e infine alle mani, se le vedevi, agli anelli e
alla punta delle scarpe; poi al marito, se c’era, e ai figli. Quando mi
capitava di trovare qualcuno più interessante del solito mi soffermavo più a
lungo e lo studiavo a fondo per tutta la durata della messa. Ogni domenica veniva
una giovane signora con i capelli lunghissimi, color del miele. Arrivava sempre con
una macchina blu sportiva, decappottabile. In inverno indossava una giacca di pelle
e stivali neri, pregava sempre con molto fervore come se sapesse che doveva
morire presto e poi andava via. E così fu. Mi dispiacque sapere che morì. Mi
sembrava un segno nefasto del destino. Perché proprio lei? Era una delle mie
persone preferite, ce n'erano tante altre di antipatiche. Ma non si può
scegliere chi resta e chi parte e comincia presto a farmene una ragione.
Fu il mio gatto a dovere andare via per
primo quando lasciammo la villa, lo affidammo alla zia Caterina che lo portò
nel suo palazzo in via Roma e lo mise in soffitta con altri gatti, ma il mio
povero gatto era un gatto da salotto e non aveva mai conosciuto soffitte e
cornicioni, cosi si ammalò di nostalgia e non sopravvisse. Andai a trovarlo una
volta ma sembrò non riconoscermi, non mangiava ormai più e mi sentii tanto in
colpa − condannare un gatto all’alienazione e al suicidio mi sembrò la cosa più
crudele del mondo. Me ne andai angosciata, incapace ad assistere ad uno spettacolo
del genere. Quella volta la torta al cioccolato non riuscì a consolarmi.
La musica assordante proveniente da uno
dei locali del convento ci accompagnava ogni giorno con le sue canzoni psichedeliche
− gli ultimi successi d’oltre manica e d’oltre oceano. Soul e rhythm and
blues erano i generi preferiti dal gruppo che si esercitava religiosamente ogni
pomeriggio. Tutti magrissimi, alti e con i jeans attillati; due dei musicisti avevano
i capelli lunghi e biondi, e anche se sembravano arrivati da poco dalla Svezia
erano anche loro di qui. Il batterista aveva la barba e gli occhiali, e secondo me
somigliava a John Lennon, forse per via del naso un po’ aquilino. Cominciavano
sempre con: prova. Uno, due, prova. Uno, due...e poi un fracasso allucinante di
chitarre e batteria. Ma ce la mettevano tutta e sapevano cantare in inglese le
canzoni più famose.
Le palme dalla corteccia squamosa erano il
terrore di mio cugino più piccolo, ed era così che di sera lo terrorizzavamo,
spingendolo il più possibile vicino l’albero che forse gli sembrava un
coccodrillo minaccioso e pericoloso; ma aveva solo tre anni e ora non se lo
ricorda più. Spero che non abbia subito dei danni psicologici irreparabili per
colpa nostra.
Palme giganti, alte alte e secche secche,
che toccavano il cielo azzurro d’estate e si perdevano nelle nuvole d’inverno; zuppa
inglese, pinoli, e musica assordante; zie e maggiordomi; ratti e gatti randagi.
Eccoci qua di nuovo tra cielo e terra, mare e nuvole, caldo, caldo e ancora più
caldo a soffocare d’inerzia, a evaporare di noia nei lunghi pomeriggi senza
fine tra lo scoccare delle due e le cinque - l’ora del ritorno alla civiltà: quando
si ricominciava con le torte, le chiacchiere, i giochi.
Ma quelle ore interminabili che passavo
sempre sveglia erano un entrare negli inferi, un inferno concesso solo a chi
non dorme mai, un intervallo interminabile in cui tutto era possibile e gli
essere umani scomparivano dalla faccia della terra per rintanarsi nelle loro
case e per non vedere la terra bruciare in preda ai demoni. Mia madre mi diceva
sempre che alle due uscivano solo i cani rabbiosi, i pazzi e i lupi mannari, che
di solito escono di notte ma per farle piacere avevano pensato di fare due
passi anche a quell’ora. Molti anni dopo mi dissero che solo “mad dogs and
Englishmen go out in the midday sun” − era forse a loro che mia madre si
riferiva?
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